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Leptospirosi del dipendente comunale, soggetti responsabili e carenze di fondi

Le malattie professionali rappresentano ancora un rischio significativo per i lavoratori, notevoli passi avanti sono stati compiuti sotto il profilo preventivo e per quanto concerne la tutela giuridica, eppure nonostante questo le corti di giustizia sono ancora chiamate a dover decidere su casi di lesioni e spesso di morte connessa allo svolgimento di attività professionale.

La Cassazione si è recentemente occupata di un caso di malattia professionale configurante un ipotesi di condotta penalmente rilevante a carico del datore di lavoro che non aveva dotato il proprio dipendente di un’adeguata protezione in riferimento ai rischi connessi alla prestazione lavorativa.

Il caso in questione riguardava la morte di un dipendente comunale, più precisamente un addetto che si occupava degli spurghi da effettuarsi sulla rete fognaria, avvenuta per leptospirosi, patologia contratta per essere entrato in contatto con acqua infetta, contatto divenuto veicolo dell’ infezione mortale per la mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuale di cui il dipendente non era stato munito.

Il conseguente decesso del dipendente in conseguenza della patologia aveva determinato il ricorso agli organi della giustizia e la decisione nei gradi minori del giudizio era stata quella di riconoscere la piena colpevolezza del datore di lavoro che non fornendo gli adeguati mezzi di protezione in violazione degli artt. 377 da 381-383 e 387 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 poneva in essere le condizioni affinché si verificasse l’evento morte. La particolarità del giudizio si basa sul fatto che il datore di lavoro responsabile era un soggetto pubblico per cui la corte ha confermato le condanne per omicidio colposo stabilite in precedenza in capo più soggetti, rispettivamente, il capo settore dei servizi fognari, il preposto all’attività di spurgo in forza presso il Comune, l’assessore alla viabilità.

La motivazione che ha giustificato la conferma del giudizio di appello (mentre l’imputato in primo grado era stato assolto) per il capo settore si basava sulla presenza di una documentazione attestante la piena consapevolezza dell’assessore circa la sensibile condizione di rischio intrinseco all’attività lavorativa svolta dal fognatore, attività resa altresì più pericolosa dall’assoluta mancanza di dispositivi idonei a tutelarne l’incolumità. A questo poi si aggiungeva un aspetto non meno importante che era rappresentato da una particolareggiata conoscenza dell’assessore circa lo stato dei lavori e le loro reali condizioni dato che l’assessore stesso si era più volte recato in loco al fine di sollecitarne la conclusione.

Sulla base di tali evidenze probatorie la corte ha identificato in tale soggetto un perfetto destinatario degli obblighi sanciti dal D.P.R. 547/55 che sanciscono l’obbligo di fornire i mezzi di protezione al lavoratore facendo presente il profilo di responsabilità a cui il datore di lavoro si espone in caso di inosservanza di essi.

La colpevolezza del preposto è stata delineata dalla corte in virtù delle sue stesse funzioni e delle stesse attività da lui stesso svolte (attività che non prevedevano la protezione delle zone del corpo più esposte al contatto con le acque poi rivelatesi contaminate). Ciò che la sua condotta ha configurato è stata una palese violazione della sua funzione di garante della sicurezza unita al fatto che la sua condotta ha creato le condizioni ideali di contagio per la leptospirosi.

Per quanto concerne la figura dell’assessore alla viabilità la sua colpevolezza è stata giustificata sulla base della precisa informazione pervenutali dal dirigente del servizio di fognatura in cui venivano fatte presenti le carenze oggettive e strutturali dell’attività in questione.  Va tenuto conto che nonostante l’art. 2 comma 1 lett. B) individui nel dirigente un potenziale datore di lavoro , tale articolo va coordinato con quanto previsto dal comma 12 art. 4 dello stesso decreto che precisa, tenendo presente il ruolo di garanzia del sindaco e dagli assessori alla prevenzione, la delega al dirigente esplica la sua funzione solo qualora gli organi politici non fossero a conoscenza di dette carenze.

L’assessore è stato quindi condannato in ragione della sua conoscenza delle condizioni lavorative insalubri e pericolose, conoscenza che tuttavia non lo ha portato ad attivarsi al fine di migliorare lo stato delle cose, acquistando le opportune attrezzature di protezione.

E’ stato inoltre precisato, in risposta all’impianto difensivo secondo cui non era stato possibile attivarsi in tal senso per carenza di fondi, che oltre al fatto che i dispositivi avrebbero avuto un costo molto contenuto, l’eventuale difficoltà economica non è in grado di determinarsi quale causa di esclusione della responsabilità come avviene per la forza maggiore (avvenimento che anche se previsto e indipendentemente da chi lo ha generato non può essere impedito) o il caso fortuito (avvenimento non previsto e non prevedibile che non consente di opporsi ).

In entrambi i casi viene inoltre specificato che il verificarsi di entrambe le circostanze, proprio in ragione del loro carattere di eccezionalità, deve essere giustificato e motivato dall’imputato con specifica indicazione dei fatti a supporto di tale tesi.

Sulla base di ciò, non è quindi possibile spiegare la violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro o le difficoltà economiche del datore di lavoro basandosi sulla sussistenza di cause di forza maggiore o di caso fortuito, anche se in passato, la Cassazione (sentenza 8 aprile 1993) aveva riconosciuto la presenza di una causa di forza maggiore (come la carenza di fondi) quale circostanza in grado di eliminare la responsabilità del sindaco per violazione della normativa sulla sicurezza del lavoro verificatesi presso locali di proprietà comunale, responsabilità che si sarebbe basata su una trascuratezza di detti obblighi per privilegiare altre priorità.