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Qualità e accreditamento delle comunità terapeutiche in psichiatria

Uno degli aspetti più importanti dell’attuale organizzazione psichiatrica, il numero e le caratteristiche delle strutture residenziali, viene messo in discussione dalle nuove proposte di legge all’esame del Parlamento. Certamente le strutture residenziali vanno meglio regolamentate. Sono necessari criteri sia per il loro accreditamento istituzionale che per l’accreditamento professionale degli operatori, onde evitare il rischio della riproduzione di realtà manicomiali. Pertanto, la pubblicazione di un testo che ripercorre la nascita e lo sviluppo delle strutture residenziali, evidenziando i problemi e suggerendo interessanti ipotesi di lavoro, mi sembra quanto mai opportuna e tempestiva.
Le Comunità Terapeutiche si sono sviluppate in Italia a partire dalla Legge 180 in alternativa agli Ospedali Psichiatrici per ospitare i pazienti con disabilità mentali gravi tali da compromettere l’esistenza stessa della persona ed il suo ambiente sociale, professionale e familiare.
Mentre le prime Comunità sono nate sul modello anglosassone, oggi, sempre più, le numerose esperienze italiane hanno dato vita a un nuovo modello teorico ed operativo per permettere al paziente, attraverso un percorso terapeutico in ambiente protetto, di acquisire la possibilità di reintegrazione sociale.
La Comunità Terapeutica, per essere definita tale, deve avere le caratteristiche del piccolo aggregato, “dove tutti possono prendersi cura di tutti” e dove la dimensione individuale si intreccia con quella gruppale in un lavoro di continuo adattamento reciproco tra ospiti ed operatori coinvolti nel progetto. Le piccole comunità (non più di 20 posti letto) stimolano gli ospiti a sviluppare le loro risorse personali per far fronte alle difficoltà invece di delegare ad altri, promuovono l’assunzione di responsabilità individuali e il mantenimento di un maggiore rispetto di sé; lo stile familiare e l’ambiente più personalizzato favoriscono un maggiore rapporto con la struttura e un contatto più umano; infine, i costi contenuti permettono di prolungare la degenza fino ad una migliore stabilizzazione della patologia.
Le attività terapeutiche e riabilitative che si svolgono nelle Comunità, sono finalizzate al recupero dell’integrazione sociale. Tra queste è dato un certo spazio alla terapia psicofarmacologica con interventi del personale infermieristico.
In questo panorama trova spazio la disciplina dell’accreditamento con i relativi aspetti normativi del SSN. L’Accreditamento Istituzionale, obbligatorio in Italia, rappresenta una garanzia di qualità e una conditio sine qua non per il funzionamento di qualsiasi struttura convenzionata, mentre l’accreditamento professionale, pur non richiesto dalla legislazione sanitaria, se presente è interpretato come un’ulteriore prova di qualità. Queste condizioni sono necessario, affinché, la Comunità Terapeutica rispetti e tuteli i diritti degli utenti e degli operatori.
Certo coniugare qualità e contenimento dei costi è lo sforzo più grande a cui deve sottoporsi, oggi, un’organizzazione per soddisfare i requisiti richiesti. E comunque sottolineata la centralità del Dipartimento di Salute Mentale, quale inviante, e rimarcata l’importanza di una stretta collaborazione con la struttura residenziale nella conduzione del progetto terapeutico.
Le opinioni spesso contrastanti da parte della Psichiatria Italiana circa l’utilizzo e l’implementazione della Comunità Terapeutica, quale strumento operativo, ne hanno limitato fino ad oggi, soprattutto in alcune regioni, la diffusione, condizionando l’assistenza e circoscrivendola alle attività territoriali, o ancor peggio ritardando l’applicazione della riforma psichiatrica.
L’accreditamento rivolto alla cura, assistenza-riabilitazione di pazienti affidati alle strutture intermedie, si inserisce in un particolare momento della storia sanitaria del nostro paese: il processo di aziendalizzazione della sanità ha mediato concetti come processo di qualità, costi-benefici, economia di scala ecc. Gli operatori del settore per convinzione o convenienza si sono adeguati.
Il grosso rischio è che tutto ciò diventi un accorgimento formale senza sostanziali cambiamenti nel modello di assistenza proposto e quindi con una falsa attenzione al problema del cittadino utente.
Lo scopo è invece quello di creare pratiche consolidate che permettano successivi cambiamenti e riflessioni sull’operato che ha portato in sincronia con il resto del processo di cambiamento ad avere qualcosa di concreto e visibile da proporre.
A questo sforzo al quale hanno partecipato la grande maggioranza delle strutture aderenti in Italia alla FENASCOP, è importante in quanto nascendo dall’esperienza dovrebbe contribuire a proporre uno standard di qualità in grado di garantire un servizio perlomeno decoroso all’utente ricoverato in Comunità Terapeutiche psichiatriche.
Il discorso del rapporto pubblico-privato deve lasciare il posto ad una seria condivisione di problemi complessi, per risolvere i quali devono essere messe in campo le risorse migliori senza protagonismi e tendenze all’ autoreferenzialità.
Chi quindi pensa di saper fare le cose incominci a dichiararlo ed a farsi vedere attraverso l’esibizione di dati oggettivamente confrontabili, in questo modo si chiacchiererà di meno e si lavorerà di più con un chiaro beneficio di tutti, soprattutto di quelle persone silenziose, ma piene di contenuti che vengono costantemente sopraffatte da chi pratica l’esercizio del potere per il potere.