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Lavoro intermittente: significato e caratteristiche

Noto all’estero come “job on call”, in Italia viene comunemente chiamato “lavoro a chiamata” o lavoro intermittente. 

Si tratta di una tipologia contrattuale, normata dagli articoli 13-18 del D.lgs n. 81/2015, n., per cui un lavoratore pone a disposizione del datore di lavoro il proprio tempo, mentre quest’ultimo ha la facoltà di richiedere l’esecuzione della prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, assecondando le esigenze individuate dal contratto collettivo. 

A sottoscrivere questo tipo di contratto sono soprattutto i lavoratori del settore dello spettacolo, gli addetti a vari servizi (come quello del centralino), i dipendenti dei pubblici esercizi e gli impiegati di vari settori del turismo; così facendo, questi soggetti si impegnano a svolgere la prestazione lavorativa in periodi predeterminati nell’arco della settimana o del mese, oppure dell’anno, alternando, quindi, periodi di lavoro a periodi di inattività. 

 

Forme e modalità del lavoro intermittente: le caratteristiche 

 

La disciplina ha mantenuto sostanzialmente invariata la definizione di lavoro intermittente tra la promulgazione del D.lgs. n. 276/2003 e quella del decreto più recente, senza introdurre, quindi, alcuna novità; eccone la sintesi disponibile sul sito dell’Istituto di Previdenza 

Si tratta di un contratto di lavoro subordinato con il quale il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro per svolgere prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, individuate dalla contrattazione collettiva nazionale o territoriale” vale a dire per periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno. 

La circolare n.17 dell’8 febbraio 2006 aveva già fornito alcune indicazioni su questo tema, chiarendo che questo tipo di rapporto di lavoro può essere sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato, ma mai essere a tempo parziale, perciò contrattualmente si daranno solo due tipi di rapporti: 

  • rapporto pieno determinato; 
  • rapporto pieno indeterminato. 

Stante ciò, sono previsti, inoltre, due tipi di rapporti professionali: 

  • rapporto professionale con obbligo di disponibilità: in questo caso il lavoratore s’impegna a restare in attesa della chiamata del datore per svolgere la prestazione lavorativa, beneficiando, nel periodo di inattività, del diritto all’indennità mensile, il cui importo è determinato dai contratti collettivi, senza comunque scendere al di sotto dell’importo minimo fissato con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Ovviamente, per tutta la durata del periodo di inattività, entrambe le parti, sia il datore sia il lavoratore medesimo, sono libere di porre termine al rapporto professionale; 
  • rapporto professionale senza obbligo di disponibilità, per cui viene garantita al lavoratore, se contattato dal datore, la possibilità di dare una risposta negativa. In questo caso, il lavoratore ha diritto alla retribuzione delle sole ore effettivamente prestate. 

In ogni caso, per il periodo in cui il lavoratore resta disponibile, anche se con obbligo di disponibilità, non matura alcun trattamento economico o normativo. 

 

Destinatari e limiti quantitativi dell’utilizzo del lavoro intermittente 

 

All’articolo 13, comma 2 si precisa che questo tipo di contratto può essere concluso soltanto da alcuni soggetti, cioè: 

  • coloro che abbiano meno di 24 anni (o, più precisamente, coloro che svolgano le prestazioni lavorative entro il compimento del 25° anno di età); 
  • coloro che abbiano più di 55 anni. 

Ma i limiti imposti dal legislatore non interessano soltanto l’età dei soggetti che formalizzano il contratto, ma anche il calcolo del monte ore, per le quali i dipendenti hanno lavorato presso il medesimo datore di lavoro: infatti, l’art. 13, comma 1 stabilisce che una condizione simile non può sussistere per un periodo complessivamente superiore “a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari”, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo 

Nel caso in cui il numero massimo di giornate di effettivo lavoro venga superato, il rapporto di lavoro instauratosi si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e determinato.  

 

Forma e contenuto del contratto di lavoro intermittente 

 

L’articolo 15 del D.lgs. n. 81/2015 prevede che il contratto di lavoro intermittente, opportunamente redato in forma scritta, debba contenere indicazione dei seguenti elementi: 

  • della durata del contratto, e delle sue ipotesi oggettive e soggettive (vale a dire la presenza della contrattazione collettiva, e la sussistenza dei limiti di età sopra indicati); 
  • di luogo e modalità della disponibilità garantita dal lavoratore, e del preavviso di chiamata, che deve essere garantito dal datore di lavoro, e non può essere inferiore a un giorno lavorativo; 
  • del trattamento economico e normativo spettante al lavoratore, e la relativa indennità di disponibilità (se prevista); 
  • delle forme e modalità secondo le quali il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere l’esecuzione della prestazione lavorativa, mediante le quali avverrà la modalità di rilevazione di quest’ultima; 
  • dei tempi e modalità di pagamento e retribuzione; 
  • delle misure di sicurezza adottate in base al tipo di attività, per garantire salute e sicurezza del lavoratore. 

 

Indicazioni per la gestione del contratto di lavoro intermittente 

 

Come già anticipato, la circolare n.17 dell’8 febbraio 2006 ha diffuso alcune indicazioni utili alla gestione di questa tipologia contrattuale da parte del lavoratore. Vediamole qui di seguito: 

  • il lavoratore è considerato parte della forze aziendali, in rapporto alla misura dell’orario effettivamente svolto nel semestre; 
  • il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento retributivo, previdenziale e assistenziale di un pari livello, che abbia sottoscritto un contratto di lavoro subordinato; 
  • il medesimo lavoratore può concludere più contratti di lavoro intermittente con diversi datori di lavoro; 
  • il rapporto di lavoro intermittente può coesistere con altre tipologie contrattuali, ad eccezione dei casi in cui sussiste incompatibilità; 
  • il lavoratore che sia obbligato a rispondere alla chiamata, in casi particolari come nei week-end e durante le ferie, ha diritto all’indennità di disponibilità pattuita soltanto in caso di effettiva chiamata; 
  • l’accettazione della disponibilità è facoltativa, ma costituisce prerequisito minimo per l’ottenimento dell’indennità; 
  • l’indennità mensile – nei casi in cui sia prevista questa modalità di pagamento – è pari al 20% della retribuzione prevista dal CCNL, ed è esclusa dal calcolo di ogni istituto di legge o contratto collettivo; 
  • ai fini contributivi e fiscali, l’indennità è considerata un reddito imponibile; 
  • il lavoratore che scelga di essere vincolato dalla chiamata del datore, in caso di malattia o eventi simili, deve avvertire tempestivamente il datore, pena la perdita dell’indennità per un periodo di 15 giorni; 
  • il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata del datore, laddove ne sia previsto l’obbligo, può comportare la scissione del contratto e la restituzione della quota d’indennità relativa al periodo successivo al rifiuto. 

Il legislatore ha fornito inoltre alcune disposizioni in merito al ricorso da parte delle aziende al lavoratore a chiamata, imponendo di fatto un limite all’utilizzo di questa tipologia di contratto. 

All’articolo 15 del sopraccitato decreto sono previsti alcuni casi nei quali al datore di lavoro è fatto divieto di rivolgersi al lavoratore a chiamata, vale a dire: 

  • per sostituire i lavoratori che stiano esercitando il diritto di sciopero; 
  • per integrare le unità produttive nelle quali abbia effettuato licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti; 
  • per sopperire ai licenziamenti che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni svolte dal lavoratore a chiamata; 
  • per accrescere il numero dei lavoratori presso unità produttive nelle quali siano stati operati una sospensione o una riduzione dell’orario di lavoro per cassa integrazione. 

Infine, il divieto vale anche per quelle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, e quindi la relativa formazione del personale.